Abbiamo chiesto un approfondimento su un tema delicato e di estrema attualità alla dottoressa Cristina Rigacci.
Prima ancora di approfondire cosa sia la genitorialità adottiva e cosa comporti diventare genitori adottivi oggi ho pensato di guardare il fenomeno dell’adozione da un’altra prospettiva: quella del bambino/a adottato.
Cosa significa per questi bambini essere desiderati e scelti come figli? Cosa può essere utile che i genitori sappiano e tengano in considerazione nel momento in cui accolgono un figlio che, sicuramente, come vedremo prossimamente, arriva e nasce come figlio con l’adozione quindi con un “altro percorso generativo” (Crocetti, 2012).
Innanzitutto è importante sin da subito riflettere sul fatto che – affinché si possa arrivare alla formazione di un legame sano con la coppia adottiva – il bambino adottato, a differenza di quello naturale, ha un passato segnato da perdite e traumi.
Infatti, ogni adozione presuppone un abbandono, o meglio, un bambino abbandonato: la costruzione di nuove relazioni affettive e di una nuova relazione nasce sulle macerie della propria continuità genealogica (Nicastro, 2019). «Ciò non vuol dire che legami affettivi siano meno profondi e intensi, ma semplicemente che sono diversi nelle loro radici: non potrebbe essere in altro modo perché il figlio adottivo viene da fuori, non è generato nella famiglia, è a tutti gli effetti uno “straniero” e non soltanto quando proviene dal lontano paese dove è nato» (Buranelli, et al., 2010; p. 25).
Inoltre, va anche precisato che per il bambino adottato l’esperienza di abbandono è oltremodo complessa in quanto il bambino è abbandonato non tanto quando concretamente si verifica il fatto bensì dal momento in cui è concepito e non incluso in un desiderio che lo prevedeva come presenza su cui investire. «Il bambino adottato non ha una preistoria in cui lui non c’è, c’è il nulla del desiderio»: una nullificazione che può ricadere sul suo senso di sé più profondo. (Agosta & Crocetti,1997)
Premesso tutto ciò, è importantissimo evidenziare che ci può essere un adattamento tra coniugi e bambino (Ricchi, 2004). Questo sarà più facile se i genitori adottivi sapranno tenere a mente che stanno accogliendo un bambino che ha dentro di sé la ferita dell’abbandono che significa, quindi, essere disponibili ad incontrare l’estraneo, il diverso, che è innanzitutto dentro ognuno di noi. Detto altrimenti, significa avere la capacità di rinunciare a ricondurre ogni fenomeno, specie se disturbante, entro schemi di pensiero e di relazione già conosciuti, prevedibili e per questo rassicuranti, ma limitativi di un’autentica espressività di sé (Luzzato, 2002).
Il bambino potrà così iniziare quel percorso che Terrile e Conti (2014) identificano ciò come “il mettere radici”: un processo relazionale ed emotivo complesso nel quale dovrebbe essere prioritaria la possibilità, per quest’ultimo, di esprimere ciò che è, compresi i ricordi e le paure. In tutto ciò un momento di particolare importanza per la nuova famiglia in creazione ma soprattutto per il bambino è rappresentato dal “momento della rivelazione dell’adozione” (Conti, 2018).
Analizzando proprio questo aspetto dal punto di vista del Bambino – e al di là di come e quando questa viene narrata dai genitori – Buranelli et al. (2010) sostengono che tale rivelazione non è sufficiente al bambino per superare il trauma dell’abbandono e che di fondamentale importanza è la costruzione di una nuova storia familiare. «Attraverso il racconto e lo scambio con i genitori, il bambino potrà collocarsi nella struttura familiare con un proprio posto ben preciso e la famiglia adottiva potrà integrare in sé stessa il buco nero delle origini facendogli perdere la connotazione persecutoria che inizialmente aveva sia per il bambino che per i genitori. Una nuova narrazione nasce nella vita della famiglia adottiva, che si arricchisce continuamente di nuove tessere come un mosaico che si va componendo: si dà origine alla costruzione di una storia condivisa, che permette, nella relazione con i vari membri della famiglia, l’evolversi del Sé separato del nuovo individuo» (Ibidem, 2010; p. 35).
Infine, dal momento in cui il bambino e i suoi genitori iniziano progressivamente a costruire, oltre che a narrare, la loro nuova storia familiare non può essere sottovaluta o sottaciuta l’importanza nel contesto di vita dei nonni e di altre figure di riferimento per il bambino stesso (Conti, 2014). Infatti, proprio questo bambino, rielaborati i suoi vissuti traumatici, creatosi nuovi legami e inserito in una nuova storia familiare e sociale, come tutti gli altri potrà crescere, autonomizzarsi, individualizzarsi e proseguire la sua vita (Ricchi, 2004). Detto altrimenti – Monaco & Castellani (2000) – avrà il suo “tempo di crescita” e se avrà trovato un ambiente capace di offrire un contenimento sufficientemente buono in relazione allo sviluppo del suo Sé molte esperienze successive all’adozione, come la separazione dalla madre per andare a scuola, non potranno che essere, sia nel bene che nel male, comunque sempre sue perchè lo specchio di come ha interiorizzato le figure di riferimento.
La storia di un’adozione è sempre la storia di un incontro oltre che di una nascita, è la storia della creazione di una famiglia e della vita in un contesto sia sociale che familiare. Una storia con tantissime potenzialità e peculiarità….. ma di questo avremmo modo di riparlarne….
Cristina Rigacci
Psicologo e Psicoterapeuta, è disabile da quando aveva sei anni. Studiosa di dinamiche psicologiche sottese ad una genitorialità difficile o resa tale per la presenza di un figlio che soffre a causa di una malattia o disturbo, ha lavorato per anni con le associazioni senesi “Sesto Senso” e “Asedo” per facilitare l’integrazione di alunni con disabilità e favorire esperienze di autonomia (housing) per un piccolo gruppo di ragazzi Down. E’ tra i soci fondatori di Codini & Occhiali.