Dopo tanti approfondimenti legati alla tipologia di violenza subita dalle donne, ai centri di accoglienza ed agli attori coinvolti nella tutela e salvaguardia delle vittime, oggi proviamo a dare voce all’aspetto opposto, provando a capire perché gli uomini agiscono violenza sulle donne e se questi sono proprio persone da colpevolizzare senza dare loro una seconda possibilità.
Conosciamo Giacomo Grifoni psicologo e psicoterapeuta che nel 2009 insieme ad altri soci, a Firenze, ha voluto fondare il CAM Centro Ascolto uomini Maltrattanti, un progetto inizialmente sperimentale, divenuto poi una realtà con più sedi collocate nel territorio nazionale.
“Esercito la professione ormai da più di 20 anni – racconta Giacomo – e spesso durante gli incontri con le pazienti donne emergevano disagi dati dalla violenza provocata dai propri partner, una tematica a cui sono sempre stato molto sensibile. Mi chiedevano: e con lui chi ci può parlare? Lui a chi può rivolgersi? Attraverso studi e incontri con altri colleghi ho capito che se la violenza è un problema maschile, è lì che dobbiamo andare a lavorare per prevenirlo. Sono le donne stesse a indicarcelo e a chiedercelo. Ho appreso che la violenza è una scelta e non una patologia come si vuol far credere e quando ho avuto ben chiaro questo concetto, beh, si è aperto uno spiraglio di luce. L’uomo sceglie di agire violenza rinforzato da un meccanismo culturale di cui i maltrattanti spesso non sono consapevoli. Respiriamo aria di violenza all’interno della società, dai mezzi di comunicazione, in molteplici situazioni della nostra quotidianità, insomma, ovunque. Non è possibile giungere a facili conclusioni, ma probabilmente l’uomo di fronte a una situazione di coppia in cui sente di poter perdere il controllo a seguito di un cambiamento (perché magari la compagna inizia a lavorare o la routine viene stravolta dalla nascita di un figlio) usa la violenza per mantenere il controllo e tentare di re-imporre il proprio volere. La violenza non è frutto di un raptus o di una perdita momentanea di controllo: nella maggior parte dei casi è una scelta per mantenerlo. Qualcuno si è mai domandato, ad esempio, quali possano essere le emozioni e i disagi che vive un padre alla nascita di un figlio? Anche lui spesso vive una sorta di sindrome pre e post partum, sebbene in maniera indiretta, ma quasi nessuno si prende carico dello stravolgimento emozionale che pervade anche la figura maschile. E la letteratura ci dice che la nascita di un figlio, come ad esempio la separazione dalla partner, sono eventi critici da monitorare attentamente quando parliamo di violenza”.
Al CAM si intraprendono percorsi di cambiamento mirati all’assunzione di responsabilità da parte di uomini maltrattanti sia a livello fisico e sia psicologico; dopo una prima accoglienza telefonica questi vengono sottoposti a colloqui di valutazione e successivamente, se ritenuti idonei, affrontano un percorso di gruppo di taglio psicoeducativo. Tutto questo grazie ad un team di professionisti formati per affrontare una tematica così vasta ma allo stesso tempo, così delicata e tortuosa.
“La violenza è un disagio che attraversa la nostra società in maniera trasversale – sottolinea Giacomo – perché ai centri per autori di violenza giungono persone laureate, così come persone di ogni condizione sociale italiana o straniera. Come ci ricorda l’OMS, la violenza è un problema globale, che si estende a tutta l’Europa e anche oltre; solo che in altri paesi i centri di ascolto per autori di violenza sono nati circa quaranta anni fa, per cui ora sono molto più avanti rispetto al nostro contesto per quanto riguarda il loro radicamento nella rete dei servizi. Possiamo comunque dire che negli ultimi anni anche in Italia abbiamo fatto un significativo passo in avanti rispetto alla necessità di lavorare con gli autori, anche dal punto di vista giuridico. Sottolineo che quando si parla di intervento a favore del maltrattante non si parla tanto di cura, perché non c’è in gioco una malattia, psicologica o psichiatrica, nella maggior parte dei casi. Il trattamento per autori si fonda su un mix di approcci a partire da quello rieducativo e di revisione culturale: i modelli tradizionali di intervento, da quello psichiatrico a quello psicologico, da soli non bastano perché spesso non centrano il bersaglio su cui dovrebbero invece lavorare, che è l’assunzione di responsabilità del maschile”.
Chiedo a Giacomo la motivazione per cui secondo lui negli ultimi 5/10 anni si verificano così tanti femminicidi “Ci sono sempre stati. È la comunicazione che è cambiata. Oggi comunichiamo in ogni modo e con ogni mezzo; oltretutto le informazioni vengono date in tempo reale e spesso vengono amplificate o male interpretate per fare “la notizia”. Bisogna stare attenti a come si veicolano queste ultime; la comunicazione gioca un ruolo fondamentale per avvicinare la gente al problema della violenza e sensibilizzarla in modo corretto, facendola sentire non “fuori” ma dentro il problema: siamo tutti coinvolti. Siamo tutti a rischio. Sicuramente, per rispondere alla tua domanda, oggi viviamo però un momento di profonda confusione e di crisi di valori e di identità, aggravato anche dalla pandemia. Il disagio familiare, relazionale e psicologico sta aumentando in modo esponenziale e i casi crescenti di violenza ne sono sicuramente un preoccupante indicatore. Quando parliamo di possibili soluzioni al problema, oltre che il fornire risorse adeguate ai servizi specialistici e formazione costante agli operatori, la prevenzione sarebbe una carta vincente, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, a patto però che sia fatta in maniera continuativa e non con interventi spot e a macchia di leopardo. A livello strutturale dovrebbe esserci l’ora di educazione sentimentale, non come “materia” o “progetto” opzionale ma appunto come dispositivo educativo permanente a livello scolastico e che coinvolge tutte le classi. Il rischio di interventi spot è di creare disuguaglianze, esclusioni o consapevolezze parziali, che alimenterebbero ancor di più atteggiamenti violenti e rabbiosi. La violenza, infatti, si infiltra tra i differenti livelli di sensibilità presenti sul territorio e nelle maglie tra i saperi e tra le varie discipline, trovando terreno fertile nella mancanza di un linguaggio comune e condiviso”.
Ferma la liberà di pensiero di ognuno di noi, il dott. Grifoni ci ha certamente mostrato che l’etichetta data d’istinto con rabbia ad un autore di violenza può invece trasformarsi in un’opportunità di rielaborazione ed educazione. Ringrazio quindi Giacomo per la disponibilità e l’accortezza usata nel condividere queste informazioni.
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