Ormai compagni di viaggio di Luca Gentili, continuiamo con lui ad esplorare il Nepal, a respirarne i profumi e a captare sensazioni impalpabili, che entrano dentro e si collocano, come in un piccolo puzzle, al posto giusto, al momento giusto. Ogni volta una scoperta, ogni volta un’illuminazione… Buon viaggio con le sue parole e con la voce di Stefania Ingino che ci regala un altro podcast.
10 marzo Da Jomsom a Muktinath
lo so cosa sto inseguendo
lo so che questo mi sta cambiando
Sto volando su una stella
in una meteora, stanotte
…
Lo farò tutto il giorno
e poi, quando il giorno diventerà notte,
lo farò tutta la notte…
Uberlin R.E.M
Ripartiamo abbandonando le mura che ci hanno custodito.
Fuori dall’hotel è più caldo che nelle camere, la grande porta di ingresso è spalancata, la stufa desolatamente spenta… ma qui sembra non farci caso nessuno.
Carico la borsa, la lego alla sella; il timido sole dei tremila metri di Jomson prova a scaldarmi, tenta di riattivare i movimenti nei rattrappiti arti.
Appena fuori dal paese su un traballante ponte di legno devo dare la precedenza ad una piccola mucca, che incerta mi viene incontro. Solo con un sonoro sculaccione del padrone si convince ad accelerare il passo, forse non si fida delle consunte tavole, dei legni sghimbesci e spezzati delle spallette.
La strada sale fiancheggiando il grande alveo del fiume e sullo sfondo, il bianco accecante della neve: l’Annapurna domina dai suoi ottomila metri, ci fa sembrare tutti delle piccole formiche.
Facciamo una piccola deviazione per vedere Kagbeni, il suo monastero e il piccolo Borgo.
Qui il percorso si biforca e scende verso l’imponente grande valle ricoperta di ghiaia del Kali Gandaki; è il fiume sacro per gli Indù, dice sia la dimora di Shiva. Da qui si può prosegue sulla mulattiera che porta all’Upper Mustang dove la più piccola delle montagne è alta settemila metri.
Kagbeni è una bolla del tempo, vive in un periodo indefinito… Vedi una mamma intenta a lavare un bambino per strada, donne a capo chino concentrate a pulire una semente nera come il pepe, le stalle con le piccole mucche che sembrano a misura dei loro padroni, ascolti il ritmare di una preghiera, incomprensibile, armonica, che ti accompagna in mezzo alle strette vie.
Non hai voglia di ripartire vorresti solo rallentare e vorresti che ogni tuo movimento durasse all’infinito. Non posso sostare oltre, la salita deve continuare, a pochi chilometri dal borgo un lunghissimo ponte tibetano oltrepassa la gola.
Il fascino, di queste leggere strutture, che attraversano i fiumi e i canaloni profondi di questa parte del Nepal è innegabile.
Come si fa a non esserne attratti: la gente le attraversa con i muli, a cavallo, a piedi. Farlo con la moto alla fine mi è sembrato naturale, restare concentrati, sospesi nel vuoto, mentre l’intavolato ti lascia intravedere centinaia di metri più in basso lo scorrere del fiume.
Mentre procedi i tuoi occhi sembrano cercare un appiglio, percepisci l’adrenalina che sale, senti il cuore che ti salta in gola, il rumore ritmico della moto che scandisce lo scorrere del tempo che si dilata e che sembra non finire mai, poi finalmente gli occhi sorridenti dei compagni, la solida roccia, il mondo che ritorna stabile, solo ora realizzi che il ponte oscillava, eccome se oscillava.
Arrivati a Muktinath, siamo saliti in paradiso, l’ascesa sembrava non finire mai, abbiamo seguito un piccolo percorso secondario per trovarci subito al cospetto dell’imponente tempio Buddista Jwala Mai; nella piccola valle di fronte il Budda nero. Scendendo di poco ecco la fontana con i 108 zampilli e la sua acqua purificatrice, non mi posso sottrarre, tocco a uno ad uno i gelidi getti.
Capisco perché questi luoghi siano ritenuti sacri, hanno una propria magia, siamo a 4200 mt le montagne salgono di altri 4000 mt e ti senti annichilito, piccolo, insignificante ti viene da inginocchiarti davanti a tanta magnificenza.
La salita ti ha dimostrato che per quanto l’uomo si affanni, la montagna vince sempre e sempre e solo per sua gentile concessione tu la puoi scalare. Beh… ora è giunto il momento del riposo l’altezza si fa sentire ogni tre passi devo rifiatare.
L’ Hotel Bob Marley di Muktinath dove abbiamo alloggiato merita una menzione speciale.
Non vi fate ingannare dal nome, è un rifugio di montagna, ricordate che siamo a oltre 4000 mt, camere spartane, con due letti di legno e una coperta, bagni e docce comuni, niente riscaldamento e per la cronaca stanotte ha fatto meno diciassette; l’unica fonte di calore era una stufa a legna, nella stanza accanto alla cucina. L’edificio di due piani fuori terra sopra, e tre sotto è a picco sulla valle da ogni finestra ha un panorama mozzafiato.
Il legno regna sovrano, dagli arredi alle infrastrutture, alle grosse tavole del pavimento.
Appena arrivati, ci siamo fatti fare una pizza, completamente fuori luogo, assolutamente decente, avevamo bisogno di un po’ di carboidrati, una specie di collegamento con casa che ci permettesse di riposare fisicamente e mentalmente dallo sforzo della salita.
A sera, stufato di carne di yak, patate del mustang, formaggio sempre di yak e come coccola una fetta di torta di mele.
La notte, nonostante il freddo, è trascorsa tranquilla, sono riuscito a sopravvivere vestito come un palombaro, maglietta e calzamaglia termica, pantaloni, piumino con cappuccio, capello di lana, collo da moto a coprire la bocca, guanti e due grosse coperte, ero così tanto imbacuccato da avere difficoltà nei movimenti.
Comunque, l’avventura continua, tra poco ci attende la discesa, forse più impegnativa della salita, ma non è ora il momento di pensarci.
Luca Gentili