Continuano i racconti di Luca Gentili, così emozionanti e veri da portarci lì, con lui, a visitare posti e ad annusare profumi. Ma anche a vivere emozioni inaspettate, tanto cariche di verità che a volte sono un grande e silente insegnamento per la realtà in cui viviamo: come sempre, buon viaggio! Proveremo a farvi viaggiare con le parole scritte e con la voce attraverso il podcast che potete scaricare sotto.
11 marzo Da Muktinath a Tatopani
“Meglio dormire libero in un letto scomodo che dormire prigioniero in un letto comodo.”
Jack Kerouac
Prima di lasciare l’abitato getto un ultimo sguardo a Chumming Gyatsa che, in tibetano, significa “cento sorgenti” questo è il nome buddista di Muktinath, dimora delle Dakini, divinità benevole o terrificanti che possono essere protettrici e guide spirituali, sfidanti o ostacoli sul sentiero dell’illuminazione.
Mi muovo lentamente, il grosso monocilindrico al minimo sembra scandire i passi, le case tradizionali di pietra si alternano a qualche nuovo edificio, il terremoto che ha colpito Kathmandu si è sentito anche qui. Qui inizia Annapurna Circuit che permette di ammirare le montagne del Santuario; il Dhaulagiri, il Machhapuchhre, il Manaslu, il Gangapurna ed il Tilicho Peak tutte vette tra i sette e gli ottomila metri.
Le persone si muovono su piccoli cavalli, adornati con campanellini hanno un passo veloce di chi è abituato a vivere in quota.
Parto con il cuore gonfio di tristezza, inizio la discesa che mi porterà dagli oltre 4200 metri di Muktinath ai 1200 mt di Tatopani, 70 km di mulattiere, sentieri, ghiaioni e guadi.
Lungo il percorso l’acqua, che ieri scendeva copiosa, si è trasformata in ghiaccio, la moto ha stentato a partire, la batteria ha emesso solo un gemito sofferente, ho cercato di convincerla con dei sonori colpi di pedivella, pian piano il motore si è risvegliato, borbottando e soffiando, si è impuntato è sembrato sul punto di morire infine è ripartito con sbuffi di fumo nero.
Guido con molta attenzione, le ruote sembrano non gradire la breccia smossa del sentiero, la ghiaia rotonda e scivolosa del fiume, il percorso richiede il massimo rispetto.
Curva dopo curva, mi abbasso di quota, le poche persone che incrocio mi guardano sempre dritte negli occhi o forse sono io a cercare il loro sguardo, come per scusarmi delle pietre smosse, dell’erba che ho calpestato, della polvere che mi porto via sopra i vestiti.
Il grande letto del fiume mi accoglie, cammino tra sassi rotondi alla ricerca di un tratto battuto che non mi faccia troppo sobbalzare, l’alveo è veramente grande, il corso si contorce in mille anse, più volte traverso le gelide acque che vengono giù dai ghiacciai, poi finalmente intravedo una piccola strada di terra battuta che costeggia la valle mi sembra un sogno, dura poco, il sentiero compare e scompare, mangiato dalle acque dei fiumi che si immettono nel enorme alveo del Koshi river, un fiume che viene da lontano i suoi affluenti drenano acqua da Tibet a centinaia di chilometri di distanza.
Muretti a secco costeggiano la strada, ogni tanto basse case di pietra.
In alto, le montagne bianche della neve caduta stanotte fumano, le nuvole impigliate sulla cima, sembrano farle evaporare.
Ora, improvvisa, la gola si stringe, la strada è intagliata sulla parete di roccia, sotto il fiume è sparito scorre decine di metri più in basso.
Più volte scarto per evitare massi caduti dalla parete che incombe minacciosa sopra la mia testa. Lascio scorrere la moto, in prima senza frenare, gli occhi a scrutare ogni millimetro del percorso, i muscoli sono dolenti dalla tensione. Acqua e fango ricoprono la strada procedo con cautela, non ho paura, forse è incoscienza, forse l’adrenalina ha drogato il mio corpo, procedo verso valle cercando di imprimere nella mente ogni dettaglio di questi impossibili luoghi.
Un camion, fermo attende il transito di un infinito numero di piccoli muli con i basti carichi di sacchi, ancora c’è simbiosi tra uomo e animale, si muovono sicuri, sembrano certi della direzione di un percorso forse battuto da secoli.
In una specie di apnea ho ripercorso le gole di Kali Gandaki, i deserti di altura, le strade fiume fatte di pillola rotonda dove non capisci mai se è il fiume che le ha inondate o è l’uomo che ha scelto come unico varco possibile di passare di lì, proprio sul greto di un torrente.
Finalmente ritrovo Tatopani, le sue piccole povere case, le lastre di pietra sconnessa, gli scivoli per superare le scale, la stretta via solo per uomini e bestie, alcuni abitanti seduti sui muretti parlottano, quali saranno le storie… come vorrei conoscere la lingua per capire la dimensione di questi uomini i loro racconti.
Torno alle vasche di acqua termale mi immergo per togliere il freddo dalle ossa, oggi mi pare quasi una normale routine; come è facile abituarsi alla quiete di queste montagne, cullati dal gorgogliante suono dello scorrere del fiume.
A sera, nell’ostello, il gentile padrone ci ha fatto trovare una montagna di momo ripieni di carne e verdure, una coppa riso e naan cosparso di burro, tutti i sapori di questi luoghi.
Luca Gentili