Riportiamo una “pagina del diario di bordo” di Luca Gentili imprenditore senese amante dei viaggi sulla 2 ruote.

Non so se sia colpa del simbolismo del luogo, del piccolo tempio del sole con la piastra dorata infissa sulla stele che alle prime luci dell’alba brillava come una stella, o se sia colpa di Aya Urku, lo spirito ancestrale della montagna, ma essere qui senza connessioni con il mondo per un paio di giorni mi ha fatto bene. È stato utile per riflettere e guardarmi dentro.

Qui sei solo con quello che la vita ti ha insegnato, con quello che sai fare, fragile in un mondo che sembra non appartenerti, o almeno non appartenere all’uomo moderno che passa senza curarsi di ciò che si lascia alle spalle.

È sempre più difficile trovare posti così, con un’anima, e occorre proteggerli dalla nostra predatoria presenza.

È difficile spiegare come mi sento stamani mentre carico i bagagli sulla moto e piano la spingo al sole perché si asciughi e si scaldi dal gelo della notte.

In questo luogo, proprio accanto al rifugio, ci sono i resti di un tambo, ovvero un magazzino. Costruito dai Puruhua cinquecento anni prima di Cristo, usato poi dagli Inca e dai conquistadores spagnoli, ora è una semplice traccia di pietra tra le pietre. Pensare a qualcosa di uso comune, non un imponente monumento come le Piramidi o il Colosseo, rimasto tale per quasi duemilacinquecento anni, fatta per l’ordinaria vita, fa venire i brividi. Credo che poco o nulla di quello che stiamo facendo possa durare così a lungo e non impattare sulla vita della Terra. Essere solo di complemento all’esistere, come un fragile nido lo è per un uccello per poi tornare ad essere sasso tra i sassi, ci dovrebbe far riflettere su cosa vogliamo che diventi la nostra casa.

Stamani al risveglio, mentre dalla finestra osservavo i lama brucare, sono arrivati due cervi e una lepre è uscita da una buca. C’era una perfetta armonia.

Sicuramente, al rientro mi farò ritrascinare dalla mia ordinaria vita e non sarò in grado di incidere in un necessario cambiamento se non con queste poche parole.

Riprendiamo il nostro cammino in direzione di Baños. Doveva essere un semplice trasferimento, oggi non siamo andati a cercare guai, sono venuti loro da noi, sotto forma di pietre e frane sulla strada, di deviazioni su percorsi che finivano nel nulla senza indicazioni su come aggirare gli ostacoli. Qui la natura e le grandi piogge frequenti sembrano in grado di spazzare via in ogni momento anche le più imponenti opere dell’uomo.

Pensavo questo mentre percorrevo un fragile ponte strallato fatto di filo di ferro ritorto e poggiavo le ruote su un traballante tavolato di legno. Sotto, il fiume impetuoso erodeva tutto, trascinando a valle limo, sabbia e pietre.

Bene, in qualche maniera e con un po’ di difficoltà, siamo arrivati alla meta chiedendo indicazioni ai locali, che erano sempre discordanti le une dalle altre.

Dopo cinque ore di guida, sono andato ad immergermi nelle vasche termali che hanno reso famoso questo luogo, in un’acqua verdastra. Tra i tanti locali, ho cercato di risanare le membra col calore e i sali disciolti che, si dice, possano sanare i dolori articolari e alle ossa.

Qualche goccia cade, buca la ferma superficie della piscina e mi invita a uscire, mi avverte di trovare rifugio.

Ora, mentre scrivo questa nota, sono le tre del mattino e piove a dirotto. Non ha smesso un istante di scrosciare con inaudita potenza. Forse qualcuno dovrebbe avvertire il cielo che siamo nella stagione secca, prima che ci affoghi.

 

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