Continuano i racconti di Luca Gentili, così emozionanti e veri da portarci lì, con lui, a visitare posti e ad annusare profumi. Ma anche a vivere emozioni inaspettate, tanto cariche di verità che a volte sono un grande e silente insegnamento per la realtà in cui viviamo: come sempre, buon viaggio! Proveremo a farvi viaggiare con le parole scritte e con la voce attraverso il podcast che potete scaricare sotto.
7 marzo Da Kathmandu a Pokhara
“Preoccuparsi è dannoso come aver paura; serve solo a far le cose più difficili.”
Ernest Hemingway
Sono arrivato con grande fatica a Pokhara, la strada era un fiume di auto che camminavano in un cantiere; si, avete capito bene, un cantiere; ai tratti asfaltati a gradini si alternavano breccia grossolana, terra di scavo, buche con acqua, buche con fango, buche ordinarie, senza soluzione di continuità.
Per noi “poveri” occidentali si sommava anche la difficoltà della guida a sinistra, per non considerare che le moto qui sono nulla e chi deve sorpassare sorpassa, sei tu che ti devi scansare: qui vige la legge del mezzo più grosso che ha sempre ragione.
Gli ultimi trenta chilometri del Passo di Prithvi, sono quelli dove ho rischiato di più nella mia vita alla guida di un mezzo, dovevi guadagnarti ogni centimetro, in un traffico denso, vischioso, immerso in una nube di polvere e fumo.
Ogni curva era una scommessa, qui le strade ti ricordano dove sei: in un paese in via di sviluppo con 2.300$ di reddito pro capite annuo, dove i segnali stradali sono un evento e nella maggior parte delle strade cittadine non c’è illuminazione; ma forse è proprio questo è il fascino; quando sei fermo, vedi un popolo sorridente e cordiale, quando ti muovi, ti scontri con infrastrutture inesistenti.
Camion colorati come murales ti sfiorano, sembrano appena usciti dalla festa indiana dell’Holi dove si usa sporcarsi con polveri di mille colori, i grossi bestioni hanno scritte ovunque, Road Star, stella della strada, Road King, re della strada See You, ti vedo, Broken Heart, cuore spezzato, best of luck, buona fortuna, don’t care less, non potrebbe fregarmene di meno.
Alcuni hanno scritto a lettere cubitali honk o Horn inteso come “suona il clacson… non ti vedo!”.
Siamo dentro una macedonia di suoni colori, miasmi di ogni genere, sorpasso alla ceca con molta incoscienza, ma tanto è, e se non mi adeguo rischio di rimanere inchiodato per ore.
In qualche maniera siamo giunti a sera, da domani si cambia, si sale in quota, si abbandona anche questo misero tentativo di modernizzazione. Mentre cammino per la strada vorrei fermare la gente per dirgli: “ma siete sicuri di voler andare in questa direzione? forse il tentativo di imitare l’occidente non è poi quella gran cosa”.
08 marzo Da Pokhara a Tatopani
Bisogna trovare il proprio sogno perché la strada diventi facile. Ma non esiste un sogno perfetto. Ogni sogno cede il posto a un sogno nuovo, e non bisogna volerne trattenere alcuno.
(Herman Hesse)
Lasciamo Pokhara, i viali, la gente indaffarata nelle botteghe e ben presto la strada si stringe, il traffico si dirada, le abitazioni pluripiano del grande centro vengono sostituite da case precarie; più che costruite sembrano appiccicate per pezzi, ferri di giunta appaiono ovunque, come se le case potesse svilupparsi tridimensionale nello spazio in qualsiasi direzione.
La gente che fiancheggia la via ha abiti colorati, proviamo a chiedere informazione sul percorso. Prima in inglese, poi a gesti nulla da fare: non riusciamo a capirci. Poco male, la strada si è già incanalata in una stretta valle, o abbiamo sbagliato tutto o non possiamo sbagliare più.
Mentre mi approccio alla montagna il traffico e le difficoltà di ieri sembrano un pallido ricordo, dire che il percorso è impegnativo sembra un eufemismo, la strada è un tratturo polveroso con pietre, sassi grossi, sassi piccini, sassi piatti, sassi aguzzi, il tutto tenuto insieme da una polverina sottile, che entra ovunque e in alcuni punti è così profonda che sembra di mettere le ruote nel borotalco, la moto affonda, saltella, sobbalza, si impenna, scivola.
Metti la prima e nel punto più difficile ti trovi in folle, pensi “mi attacco ai freni, no… no … non è il caso”, si scivola e a fianco c’è cinquanta metri di baratro, finirei sicuramente nel fiume e l’acqua è sicuramente fredda, non resta pertanto che affidarsi a San Cristoforo protettore dei viandanti.
Il paesaggio circostante è comunque strabiliante, la moto sembra regge, apro il gas e, come dice la prima regola dell’endurista nel dubbio su cosa fare, dai gas!
Le poche persone che troviamo sono indaffarate in ordinari lavori, come se fosse ordinario lavare i panni, i neri capelli e i bimbi in mezzo di strada, nell’acqua del ruscello che gelida scende copiosa dalla montagna: mi viene da sorridere non c’è tubo, non c’è rubinetto, non c’è lavandino non ci sono le confortevoli pareti di una casa, solo un tiepido sole mi avvolge.
Mi sento fortunato, la guida a sinistra mi dà un vantaggio, posso accostarmi alla parete di roccia senza fare l’equilibrista sul fragile ciglio del burrone che costeggia la strada, lascio sfilare i pochi automezzi che mi stringono, una moto e un’auto coprono l’intera carreggiata.
Il passo è lento, il costone di roccia è tagliato, copre per intero il sentiero, sembra che da un momento all’altro debba cadere, per ricongiungersi al lato opposto della valle.
Fatico a salire, la polvere che ricopre la strada “non da grip” alle povere ruote, procedo a zig zag come un ubriaco, la strada mi spinge dove vuole e rimbalzo tra le sconnesse pietre del fondo.
Una piccola freccia indica la via: la guardo sorpreso, non è una strada, ma un viottolo lastricato con grandi pietre grigie, proprio nel mezzo uno squadrato canale. Sul fondo l’acqua scorre con forza, attraverso più volte su precarie pietre questo piccolo imbrigliato ruscello.
L’arrivo a Tatopani toglie ogni dubbio e preoccupazione, valeva assolutamente la pena ingoiare tutta la polvere della strada, impastarla col sudore e spaccarsi le ossa sulle pietre del percorso; passare in questo micro-villaggio tra le case di legno in una atmosfera d’altri tempi, ripaga ogni fatica.
Alla fine, ho contato le case, non sono più di venti; in compenso scendendo una ripida scala di pietra arriviamo alle vasche termali, sembrano lì dai tempi di Siddharta Gautama.
Un’unica doccia con nappo è il segno dell’oggi, qui i locali vengono a lavarsi, i turisti sono ben accetti, ti immergi insieme a loro nelle vasche, l’acqua è calda, a tratti bollita come una placenta accogliente; la tua pelle fuma, guardi lo scorrere del fiume con l’acqua gelida che viene giù dal ghiacciaio, galleggi leggero, appagato, in pace col mondo.
Luca Gentili
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