In questi giorni per Federica, Monica e Daniela si festeggia un compleanno diverso da quelli vissuti finora: il primo anniversario dall’uscita del loro libro scritto a tre mani; un testo che racconta una storia vera fatta di crudezza, di vocaboli difficili e di concetti duri da accettare; ma anche di dolcezza, sensibilità ed amore verso una figlia, verso una madre, verso la vita…
Raggiungo Federica al telefono “un anno fa usciva il nostro libro, un libro che racconta la mia esperienza e quella della mia famiglia, un libro con un finale un po’ aperto, forse anche diverso dai libri conosciuti visto che il mio percorso non è ancora concluso. L’idea nata qualche anno fa, ha l’obiettivo di non far sentire soli chi vive questa malattia in prima persona, i loro familiari e le persone vicine che si sentono catapultati quasi improvvisamente, in un incubo: quello dei disturbi alimentari”.
“Abbiamo brancolato per anni nel buio alla ricerca di un aiuto, un appiglio che fortunatamente abbiamo poi trovato per caso. Abbiamo voluto raccontare la nostra esperienza precisando che non vorrà essere un manuale di istruzioni ovviamente, anche perché ahimè non è un gioco nonostante il titolo del libro. Ricordo che indecise sul titolo, alla fine decidemmo di chiamarlo il gioco dell’oca perché come nel più famoso gioco da tavola, si va avanti e indietro durante il percorso, ma a differenza di quel passatempo, qui non si torna mai al punto di partenza”. Chiedo a Federica se pensa di essere cambiata da allora “sì, ma la mia vita cambia in continuazione, come la vita di ognuno di noi, nonostante questo spaventi e faccia molta paura. Personalmente odio i cambiamenti, ma adesso ho una consapevolezza diversa per affrontarli rispetto al passato”.
Raggiungo anche Daniela, co-autrice del libro che sceglie di condividere con noi una bellissima riflessione sui giovani “li vedo uscire dall’assemblea, i ragazzi, a gruppi o da soli. Ridono, discutono, alcuni sono silenziosi. Hanno 16 anni, e poco più, sono colorati, vestono alla loro maniera, alcuni ricordano l’arcobaleno, altri una notte senza stelle. Sono belli, mio Dio se lo sono: illuminano le strade appena passano con i loro schiamazzi e con le mani che parlano. In mezzo la vedo, mia figlia, anche lei è bella, neppure si immagina quanto. Sembrano forti, provocatori, nascondono la fragilità del cambiamento dietro alla spavalderia di una sigaretta accesa, di un piercing al naso, di un tatuaggio a forma di cuore”.
“Li guardo senza sfiorarli, perché bisogna stare attenti con loro, sono come cristallo, possono rompersi con un soffio di vento. Vorrei scrivere sui muri delle scuole parole importanti come attenti! Trattare con cura, contengono sogni. E forse sono propri questi sogni che li rendono invisibili a noi grandi, perché i grandi si sono dimenticati cosa vuol dire essere e non essere allo stesso tempo. Non avere una forma definita, sentirsi morire per una parola non detta, per una carezza mancata, per un rifiuto. Mi chiedo quanti di loro vorrebbero urlare e non ci riescono, quanti, come Federica, si sentono ombre e provano a stare a galla come possono. La mente torna al nostro libro, è ormai un anno che lo abbiamo scritto… forse dovremmo riscriverlo, perché le cose cambiano, o forse può raccontare ancora qualcosa. Vorrei che anche loro lo leggessero, i ragazzi, in fondo è di loro che si parla, ma i libri sono noiosi e le parole troppe. Forse dovremmo comporre una canzone per farci ascoltare, o forse disegnare sui muri, e magari scendere dal piedistallo di chi ha capito tutto. Il risultato è un muro di silenzio assordante, che isola il loro mondo e che li rende soli ad affrontare il cambiamento. Ansia, depressione, ludopatia, autolesionismo, bulimia, anoressia, problematiche legate all’identità di genere, bullismo e violenza domestica. Sono tutti lì, nascosti dietro alla facciata dei loro vestiti a colori. Sta a noi entrare in punta di piedi e cercare il linguaggio giusto per aiutarli a crescere. Sta a noi rompere lo stigma che li circonda e sollecitare la società a non considerare queste problematiche come emergenze isolate, ma come realtà quotidiane che richiedono comprensione e azione”.
Secondo te come si potrebbe fare? “stiamo provando a entrare nelle scuole con i Comuni, con le associazioni, ma non è facile e a volte mi chiedo se non siano proprio le istituzioni ad aver paura di parlare di certe cose. Parlare di disagio giovanile lo rende reale, e spesso la realtà, specialmente se non si sa come affrontarla, è meglio nasconderla. Lo stesso concetto vale per la violenza contro le donne, per i suicidi nei minori: il solo pensare che un ragazzo si possa suicidare fa venire i brividi e quando questo accade ci scandalizziamo, come ci scandalizziamo quando si muore per una malattia curabile come l’anoressia. E allora forse dovremmo smettere di aver paura della verità e affrontarla, e se questo vuol dire essere provocatori, urliamo come fanno loro e cantiamo una canzone, magari reppata… forse potrà servire a farsi ascoltare”.
Ringrazio Federica e Daniela, donne forti e caparbie che insieme a mamma Monica non vogliono portare avanti una battaglia, ma un dialogo, un confronto e un aiuto sincero verso coloro che ancora non riescono a vedere una luce di speranza in fondo al tunnel.
Stefania Ingino