Andrea e sua moglie PaolaAndrea e sua moglie Paola

Qualche mese fa ho perduto mia moglie dopo una lunga malattia. Ho scritto mia moglie, ma forse avrei dovuto dire la mia compagna di vita, una vita che abbiamo trascorso insieme dai tempi del liceo, percorrendo gli stessi studi, lavorando insieme, vivendo insieme e tanto altro. Per me è stata una perdita enorme e molto dolorosa, un dolore che è tutt’ora presente dentro di me, ma che sento via via attutirsi attraverso il “lavoro del lutto”. È questa un’espressione che tutti conosciamo, che tutti usano a volte anche senza conoscerne in pieno il significato. Lavorare al lutto di una persona vuol dire lasciarla andar via piano piano, distaccarsene un poco per volta.

Vorrei cominciare il mio contributo odierno con alcune questioni etimologiche e terminologiche che, come capita spesso, non sono pignolerie da eruditi.

Lūgere è un verbo latino che significa piangere, il suo participio passato è “luctus”, che vista la sua forma temporale vuol dire “pianto”, ma come un’azione che è finita, passata, abbiamo pianto e quindi il luctus è avvenuto, finito. Forse possiamo non piangere più, lo abbiamo fatto abbastanza.

Perché il significato del lutto e del suo “lavoro” sta proprio qui, nel raggiungere la capacità di distaccarsi da chi non c’è più e, si potrebbe dire, nel lasciarlo andare, permettendo a chi resta di riprendere la propria strada, quella fatta di curve e rettifili, fino al proprio traguardo finale.

C’è però un problema, ancora, di tempo.

Visto che parliamo di un processo e non di un’operazione istantanea non c’è un tempo prestabilito, naturalmente, di durata e di compimento di questo lavoro ma senz’altro è un periodo considerevole. Poi ci sono a volte degli scostamenti patologici per cui l’operazione si trasforma in una manovra infinita, a volte invece qualcuno si illude di operare un lutto veloce.

È vero che ognuno ha i suoi tempi condizionati da mille cose, ma in generale il problema è che quando si parla dell’elaborazione del lutto il lavoro è lungo e per una semplice ragione. Quasi sempre la partenza di questo compito comincia da una posizione che è esattamente all’opposto di quella a cui bisogna arrivare. Non si può cioè accettare che la persona cara sia distaccata e proiettata in una dimensione definitivamente separata da noi. All’opposto, la volontà è quella di rimanere attaccato a lei, quasi di seguire il suo destino nel viaggio che sta cominciando.

In quella fase il dolore ci porta indietro, ci fa rimanere adesi a chi non c’è più, alla morte.

Personalmente mi è capitato esattamente questo, l’avrei seguita, se avessi potuto, senza esitazioni. D’altro canto, dopo quasi sessant’anni insieme, il vivere assieme anche questa esperienza appariva naturale. Molte considerazioni poi rendevano difficile ed estrema questa decisione, ma gli strati profondi del corpo, quelli che a volte quasi imperscrutabilmente governano la nostra presenza nel mondo, vanno spesso per loro conto. Così mi sono trovato a vivere un periodo (non del tutto superato, anzi) in cui tutto il mio disagio si manifestava nel corpo che si ammalava e soffriva, come mai prima di allora. Fino a quando qualcuno, più sfrontato, non mi ha messo di fronte a quello che anche altri avevano forse pensato, osservandomi. “Che vuoi fare – mi fu detto – vuoi andare dietro a Paola? Non ti accorgi di questa volontà negativa che stai rivolgendo verso te stesso?”

Forse questa scossa mi è servita a uscire dalla prima fase del lutto, creando un primo distacco con la mia amata. Che si basava sul semplice fatto che lei era morta, ma io no.

Qualcuno si meraviglierà: che scoperta è? non l’avevi ancora capito?

Inviterei tutti a non sottovalutare la potenza degli affetti al cospetto della pura e semplice ragione, che badate bene, in certi momenti, è solo una parte della nostra mente e forse neppure quella preponderante.

Lavorare al lutto di una persona vuol dire lasciarla andar via piano piano, distaccarsene un poco per volta, come quando ci trovassimo ad un bivio e ciascuno di noi due fosse più o meno costretto a prendere una strada diversa dall’altro. Forse il primo passo è proprio quello di accettare, accorgersi e convincersi che tra noi due si è creato un vallo che diventerà sempre più forte e incolmabile, anche quando questo, ed è la fase più difficile, è straziante e lacerante dentro, fonte di senso di colpa e di quasi insostenibile dolore.

Anche qui qualcuno potrebbe chiedere, senso di colpa di cosa? Del semplice fatto che lei si è dovuta incamminare da sola in un viaggio ignoto ed io invece sono rimasto qui nel mondo noto e che sempre ci aveva visto insieme.

Può bastare – credetemi – per sentirsi colpevole senza alcuna colpa.

Andrea Friscelli

Sienasociale.it ospita con estremo piacere le riflessioni del dottor Friscelli che ringraziamo per la disponibilità. Andrea Friscelli, psichiatra e psicoterapeuta ha lavorato per molti anni nel servizio di Psichiatria della locale ASL, è tuttora attivo anche nel Terzo Settore cittadino come fondatore della cooperativa sociale La Proposta (Orto de’ Pecci) di cui è stato per lunghi anni il presidente. Negli ultimi anni ha pubblicato alcuni libri e si dedica alla riflessione sui fatti felici o dolorosi della vita.

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