Cristina Rigacci e’ psicologo e Psicoterapeuta, è disabile da quando aveva sei anni. Studiosa di dinamiche psicologiche sottese ad una genitorialità difficile o resa tale per la presenza di un figlio che soffre a causa di una malattia o disturbo, ha lavorato per anni con le associazioni senesi “Sesto Senso” e “Asedo” per facilitare l’integrazione di alunni con disabilità e favorire esperienze di autonomia (housing) per un piccolo gruppo di ragazzi Down. E’ tra i soci fondatori di Codini & Occhiali.
Scopriamo la generosità e la forza della dottoressa Rigacci volontaria speciale che fa gli auguri a sua madre spiegandoci tutta la forza richiesta ad una mamma di un figlio disabile.
Anche se, secondo Lison (1992), una malattia cronica o una disabilità permanente devono essere considerate “come un destino”, non può essere sottaciuto il fatto che la presenza di un figlio disabile può determinare gravi ripercussioni su tutta la famiglia, portando significative modificazioni agli stili e alla qualità della vita dei suoi membri (Soresi, 1998; Villa, 2019).
Come scrivono Crocetti et al., (2012; p.38) «La malattia cronica dell’infanzia, indipendentemente dall’età d’esordio, è vissuta come una catastrofe sul piano reale, che induce sul piano mentale, uno sconvolgimento, tipico delle situazioni di crisi. Il legame relazionale si spezza, le esperienze perdono significato e irrompono le angosce più arcaiche dell’esperienza umana».
Tuttavia, l’opinione prevalente è che sia la madre, tra le due figure genitoriali, quella che subisce maggiormente le conseguenze negative della patologia del figlio (Zanobini, et al., 2002, Cerioli, et al., 2004). Proprio la Mannoni (1971; p. 25) – che è stata tra le prime psicoanaliste ad affrontare il tema della nascita di un figlio disabile, in riferimento ai sogni dei genitori (e della madre in particolare modo) – scrive: «… L’irruzione nella realtà di un’immagine del corpo infermo provoca nella madre uno shock: laddove sul piano fantasmatico il figlio immaginario veniva a colmare un vuoto, l’essere reale con la sua infermità non solo risveglia i traumi e le insoddisfazioni precedenti, ma impedisce che sul piano simbolico la madre possa finalmente risolvere il proprio problema di castrazione» e poi «è la madre che si dedicherà, contro l’inerzia o l’indifferenza della società, a una lunga battaglia che ha per posta la salute del figlio diseredato; salute che essa rivendica, conservando un morale di ferro pur attraverso l’ostilità e lo sconforto…….Fatta per dare la vita essa è talmente sensibilizzata ad ogni attentato rivolto contro la vita che ha creato, da arrivare persino a sentirsi arbitra di morte se l’essere che ha messo al mondo le sottrae la possibilità di una qualsiasi proiezione umana.».
Focalizzando l’attenzione sull’arrivo della diagnosi, Lingiardi (2018, p. 40) specifica anche che «Grave o lieve, cronica o acuta, incerta o conclamata, ogni malattia rompe un equilibrio. Una diagnosi minacciosa modifica la nostra vita psichica e le nostre relazioni private e pubbliche. L’attesa di una diagnosi ci tiene in ansia e quando arriva porta con sé una gamma infinita di stati d’animo. A seconda della sua gravità e delle possibilità di trattamento, genera sorpresa, sollievo, allarme, impotenza, angoscia, rassegnazione, tristezza, disperazione, depressione. Anche una brutta influenza è una frustrazione, uno scarto rispetto all’idea, all’idealizzazione, di salute come stato di equilibrio e benessere».
Ma non tutto finisce, fortunatamente, con la diagnosi. Con riferimento a Scarselli (2012) è possibile affermare che dalla prima fase di shock in cui oppressione, incredulità, intontimento e senso di impotenza si susseguono senza tregua di fronte alla sentenza lapidaria e a volte crudele di alcuni medici, segue dopo non molto il rifiuto, il diniego della realtà. Dal magma confusivo di tutti questi sentimenti introdotti, dall’assenza di speranza, dalla perdita dell’immaginario, dal vuoto progettuale, successivamente, si fa spazio la speranza, la riconquista di un rapporto d’amore, alla scoperta di una strada diversa, ma già percorsa da altri, alla ricerca di compagni di viaggio che possano aiutare i genitori in un momento in cui si sentono soli e disperati e in cui è necessario introdurre un enorme impiego di energia che comporta la costituzione di un autentico, adeguato amore per un figlio svantaggiato. Infatti, tale amore non è, come comunemente si pensa, scontato, obbligatorio o spontaneo, ma è il frutto di una lunga e faticosa elaborazione, caratterizzata da notevoli conflitti interiori, dovuti alla lotta di sentimenti contrapposti, giocati tra la tenerezza e il bisogno d’amare, la rabbia, il rifiuto e l’impotenza. Solo attraverso queste tappe si giunge al patteggiamento con la realtà, alla riorganizzazione della propria vita, fino all’accettazione e all’adattamento e solo così potrà essere ristabilita quella relazione fondamentale di contenimento (holding) madre-bambino di cui parla Winnicott (1965) che sarà il prototipo di tutte le successive relazioni compresa quella con i vari operatori, che a diverso titolo e con obiettivi diversi si trovano a gravitare intorno al disabile.
Quindi che cosa dire a tutte le madri di quei bambini che hanno avuto, più o meno presto o più o meno tardi, un altro nome (quello della malattia di cui sono affetti) oltre a quello scelto dai loro genitori madre in primis?
Sinceramente non credo e non vorrei che ci fossero parole predefinite: la vita è vita e il desiderio sta alla base della stessa (Crocetti, 2023) e, come tale, nel desiderio e nella speranza, penso ogni vita vada vissuta a pieno. Del resto come ha detto Papa Francesco «La speranza non delude……È un dono per andare avanti, per agire, per tollerare, per soffrire. Questo è un mondo pieno di delusioni. La speranza è tutti i giorni, la trovi nei piccoli angoli della tua vita e lì c’è la speranza che ti porta avanti».
Infine, scusatemi e permettetemi, il mio ultimo (e non per importanza) pensiero va a mia madre, anch’essa madre di una figlia che non si chiama solo Cristina.
A te che ha dovuto fare i conti con una figlia difficile da gestire e da crescere e, molto probabilmente, anche con le ferite che ciò ti ha causato. Grazie per avermi dato la vita, lottato fortemente per la tua e la mia e per avermi accompagnata, comunque e come potevi, sempre.
A tutte le “mamme speciali” i miei più sinceri auguri.
Cristina Rigacci
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“Convivo con un corpo malmesso ma aiuto gli altri” la storia di Cristina