Piero Giannini è un giovane uomo di quasi 25 anni. Ha frequentato le scuole superiori presso il Sarrocchi di Siena e poi ha iniziato a lavorare. Tutto molto normale se non fosse che Piero è un “autistico”, anche se ad alto funzionamento. La sua storia ce la racconta lui, insieme ai suoi genitori, Giancarlo e Lucia, che da sempre lo supportano e hanno lottato con lui perché raggiungesse un’autonomia in un mondo, possibilmente, inclusivo.
Ricordo i genitori di Piero quando era ancora adolescente e frequentava la scuola; ricordo due persone molto attente ad ogni possibile successo del figlio, ma anche ai possibili regressi.
“Noi abbiamo due modi di guardare il mondo molto diversi – mi confida Lucia – Giancarlo, mio marito, è tendenzialmente pessimista, mentre io sono ottimista: spesso è successo, nel tempo, che ad un miglioramento di Piero in un contesto, corrispondesse un regresso in un altro. Io, però, non mi sono mai fatta scoraggiare: so che Piero ha difficoltà, ma so anche che, da quando è piccolo, la sua condizione è progredita, anche se lentamente. Mio marito, invece, è più facile allo scoramento. Ma bisogna dire che ci bilanciamo.”
Pur non essendo facile, decido di chieder loro di raccontarmi la storia della formazione di Piero.
“Fino ai due anni Piero non aveva manifestato alcun comportamento che ci avesse potuto far sospettare qualche problema. A tre anni, però, lo iscrivemmo alla scuola materna: senza colpevolizzare nessuno, il fatto fu, però, che Piero finì in una classe, forse, molto numerosa, in cui erano inseriti tutti bambini piccoli. Le maestre avevano tanto da fare. Piero entrò in crisi: piangeva praticamente tutto il giorno, a volte era anche aggressivo e quando tornava a casa non si staccava da me. Iniziava ad essere un problema, anche perché oltre a lui, abbiamo una figlia, Eva, che allora era ancora piccolina. – Racconta Lucia – In ogni caso, non ci facemmo più di tanto caso, ma poi arrivò l’estate e notammo alcuni atteggiamenti un po’ fuori dal comune. Piero parlava da solo e di sé, in terza persona; andava in triciclo nel nostro grande giardino, ma girando sempre su se stesso; era diventato, inoltre, rabbioso, stizzoso ed evitava le persone. Non era per niente socievole.”
Nessuno però vi aveva accennato alla possibilità che Piero soffrisse di disturbi dello spettro autistico?
“No, però noi volevamo vederci chiaro. Ci consultammo con il pediatra a cui segnalammo tutti questi atteggiamenti “sospetti”. Il medico accennò alla possibilità che si trattasse di autismo, ma per una diagnosi completa ci indirizzò alla Stella Maris di Calambrone, a Pisa, dove rimanemmo, io e il bambino, quindici giorni durante i quali il piccolo fu sottoposto ad osservazione nelle varie situazioni di vita. Giancarlo rimase con Eva e questo si ripeté per altre due volte, negli anni successivi. Già il primo anno, però, ricevemmo una relazione in cui si dichiarava un disturbo generalizzato dello sviluppo e anche indicazioni precise per individuare a Siena psichiatri e professionisti, che operavano con le stesse modalità praticate a Calambrone, a cui avremmo potuto rivolgerci una volta ritornati a casa. La diagnosi di “autismo ad alto funzionamento” arrivò quando Piero fu certificato dallo SMIA (Servizio Mentale Infanzia e Adolescenza), ed ebbe il sostegno anche se non gli fu riconosciuta subito la 104, perché a quel tempo, a scuola, non era necessaria.”
“Autistici ad alto funzionamento” sono persone che, nonostante il disturbo, parlano, leggono, scrivono e gestiscono le azioni quotidiane. E infatti Piero ha frequentato la scuola e, attraverso la scuola, ha anche iniziato dei percorsi lavorativi.
“La diagnosi di “autismo ad alto funzionamento” non significa che chi la riceve non abbia difficoltà. Una di queste, importante, riguarda la difficoltà di mettersi nei panni degli altri da cui deriva un deficit di socializzazione. Nel caso di Piero, nostro figlio elabora tutto in funzione di sé; quando scopre un interesse particolare, si focalizza su di esso, che assorbe interamente il suo pensiero: per questo il dialogo con i pari è difficile. Pretenderebbe che una conversazione ruotasse tutto il tempo intorno a quella specifica tematica: ora, per esempio, è il momento della telefonia, in passato ci sono stati altri argomenti che lo hanno attratto, come l’astronomia, che, per quanto interessanti, diventando centrali, finivano con impedire una vera socializzazione.”
Però Piero oggi riesce a interagire con gli altri.
“E’ stato un lungo percorso che è iniziato non appena abbiano avuto dal relazione dalla Stella Maris. Abbiamo sempre voluto che Piero acquisisse la sua autonomia. Certamente sapevamo che era una meta che si poteva raggiungere solo dopo un percorso a piccoli passi, in cui a volte si procedeva, ma altre si involveva. Piero ha partecipato a tantissimi progetti fin dagli anni dell’asilo: potevano essere i campi solari, oppure corsi di psicomotricità; gli abbiamo fatto frequentare sport diversi, da quelli di squadra, come il basket, a quelli individuali, come l’equitazione; ha frequentato a volte con ragazzi disabili, ma anche con coetanei normodotati; a volte si trattava di attività che prevedevano soggiorni fuori casa. Non gli abbiamo fatto perdere la partecipazione ai viaggi di istruzione, anche se dovevamo sempre assicurarci che ci fosse una persona a lui dedicata perché i bambini come Piero devono essere seguiti a vista d’occhio: bimbi non verbali, o verbali a modo proprio, non si avvicinano all’estraneo e il rischio che si “perdano” è elevato se non c’è un educatore dedicato. Anche decidere di iscrivere questi bimbi ai campi solari non è semplice, perché non sempre viene garantita la presenza di un sostegno. Però noi abbiamo voluto che facesse esperienze come queste, che erano oltre l’attività scolastica.”
Una parola magica: “autonomia” che ricorre spesso nel vocabolario dei genitori di Piero.
“Ognuna di queste esperienze ha formato Piero, lo ha aiutato a crescere in termini, appunto, di autonomia. A scuola, per esempio, Piero è sempre stato accompagnato dai volontari delle Associazioni, mentre ora che lavora all’Ospedale Le Scotte, lo raggiunge con i mezzi pubblici e sa sbrigarsela da solo anche quando, sbadatamente, non scende alla propria fermata. E la sera, ora, prima di cena, esce e raggiunge il Circolo dove interagisce con i suoi coetanei, ma anche con adulti. In termini di socializzazione e di autonomia è davvero cresciuto, ma c’è ancora molto da fare.”
La cooperativa Tabit vi sta aiutando in questo momento.
“Sì, di passi ne ha fatti tanti, ma ancora se ne devono fare. Da novembre ci siamo rivolti a questa cooperativa sociale che organizza incontri per aiutare i ragazzi disabili ad acquisire l’autonomia, che non significa solo uscire da soli. In questo periodo vengono otto volte al mese a casa e “insegnano” a Piero a svolgere le mansioni domestiche normalmente necessarie: hanno stilato una tabella di marcia che prevede l’acquisizione di certe abilità domestiche . Laddove Piero non riesca a svolgerle, il percorso si ferma fino al momento in cui l’abilità è acquisita; a quel punto si passa ad una successiva. Piero deve imparare a fare cose senza alcun suggerimento da parte degli operatori; l’intervento è strutturato e cadenzato, forse poco flessibile, ma la flessibilità fa paura a ragazzi come il nostro, mentre un’acquisizione sicura dà certezze.”
Il principio è quelli che sta a fondamento del metodo ABA?
“ABA è una terapia molto efficace nel trattamento dei disturbi dello spettro autistico, che mira a ridurre le abitudini comportamentali disfunzionali attraverso la costruzione di modelli di comportamento adattivo: migliorano la comunicazione,l’apprendimento e i comportamenti socialmente appropriati. Noi, personalmente, se possiamo dare un suggerimento a chi ha un figlio come Piero, è di muoversi immediatamente su questo fronte e sfruttare le opportunità che questo metodo offre. Certo, tutto ha un costo e i genitori a volte sono soli però, accettare la diagnosi e attivarsi presto in questo senso è fondamentale per aiutare i ragazzi come nostro figlio.”
Quali sono gli aiuti di forniti dalla collettività e dove si può migliorare?
“A nostro modo di vedere, la difficoltà maggiore per una famiglia è sapere che si può essere aiutati. Faccio un esempio: noi abbiamo saputo della possibilità di ottenere una aiuto per avere un assistente familiare parlandone, casualmente, con un’assistente sociale. Una volta a conoscenza, abbiamo dovuto presentare un vero e proprio progetto terapeutico, individuare un educatore che prendesse parte al progetto. Insomma, tutto si può fare, ma con grande difficoltà e non tutti riescono. Forse, entrando in qualche associazione, si ottengono più informazioni, ma noi non abbiamo mai percorso quella via. Per certi aspetti, può essere stato un errore, anche perché noi siamo molto soli, non avendo, tra l’altro, una rete famigliare che ci possa aiutare. Però ci siamo convinti di una cosa: la condivisione a volte aiuta e a volte no, perché rischia di amplificare le difficoltà proprie sommandole con quelle degli altri. In più ci sembra che così facendo si tende a crescere i figli in una sorta di bolla di vetro, mentre noi abbiamo voluto che Piero si integrasse nel mondo.”
Che significa anche dargli la possibilità di entrare nel mondo del lavoro.
“Quando ero ancora in Quarta del Sarrocchi – mi racconta Piero, in prima persona – ho iniziato a lavorare per il Comune di Sovicille e digitalizzavo i dati. Sono rimasto là quattro anni, anche dopo la fine della scuola. Poi, però, il Covid ha obbligato tutti a stare a casa”.
A proposito di scuola, Piero inizialmente non ha avuto dei buoni rapporti con i compagni di classe, ma poi con alcuni sono migliorati.
“Sì, alcuni li vedo ancora, con altri ci siamo persi. Però finché sono andato a scuola, soprattutto negli ultimi anni, alcuni mi coinvolgevano. A volte sono andato anche a mangiare fuori con loro. E non solo con i miei compagni di classe. Abbiamo festeggiato anche il mio diciottesimo compleanno insieme. Ma io ero anche in contatto con alcuni ragazzi della Banca del tempo di scuola e con loro uscivo e con qualcuno capita di sentirsi.”
Ma il percorso di formazione non è finito con i cinque anni di scuole superiori.
“Questa volta non è stato necessario cercare: la Società della Salute e lo SMIA hanno organizzato un progetto finalizzato alla formazione lavorativa. Siamo stati contattati da un assistente sociale perché Piero è stato considerato idoneo alla frequenza di questi corsi. Ha fatto diversi incontri presso un centro di formazione in cui gli è stato insegnato a gestire i rapporti e le relazioni interpersonali (contenimento dell’ansia, per esempio) sul posto di lavoro. Inoltre, ha frequentato corsi di formazione mirati all’inserimento lavorativo, come quelli sulla sicurezza sul posto di lavoro o l’Hccp. Terminati i corsi, ha trovato lavoro presso la copisteria dell’ospedale.”
Oggi Piero lavora, è autonomo, interagisce con altri, li guarda anche in volto, anche se non sempre è facile. Potremmo dire che Piero, insieme ai suoi genitori, ha vinto la sua battaglia.
Marina Berti